Ambientato nel 1997 (niente social network, colori freddi e chiari e pettinature demodè) l’opera prima di Maxime Rappaz di genere drammatico, in uscita il 12 dicembre, segue la vita e le riflessioni di Claudine (Jeanne Balibar), elegante donna di mezz’età che lavora come sarta a domicilio e madre di un ragazzo disabile di cui si prende cura completamente da sola.
La sua settimana è ben scandita e segue un ritmo preciso: prima i vestiti su misura, poi le chiacchiere con le clienti più affezionate e la sveglia che tutte le mattine suona alle 7 in punto. Ogni martedì Claudine però decide di evadere dalla routine, prende un treno e con un’ora di viaggio raggiunge, oltre la diga della Grande-Dixence fra massi rocciosi e verde, un hotel di montagna dove, con la complicità di un cameriere, consuma rapporti con uomini di passaggio.
Di questi incontri la donna non conserva niente, non si fa condizionare sentimentalmente ma si lascia abbandonare a carezze e letti disfatti per sentirsi viva. L’appuntamento con Michael (Thomas Sarbacher), affascinante ingegnere idroelettrico non sposato, rompe lentamente gli equilibri della donna.
Il lungometraggio ha un ritmo abbastanza lento, i dialoghi sono pochi e diretti, si guarda con delicatezza all’essenzialità della donna senza tralasciare, oltre alla veste di madre, i bisogni di amante e femminilità. La scenografia è dominata dalla natura e dalle silhouette delle montagne rocciose con cui Claudine, nelle sue camminate su tacchi a spillo, sembra avere un rapporto ancestrale. Ottime le interpretazioni dei due innamorati che all’interno del rapporto mantengono le loro individualità e specificità e decidono, nonostante l’età un po’ avanzata, di mettersi in gioco e vivere qualcosa di sincero.
Rappaz gioca con il dettaglio (il rosso acceso del lipstick, i ritagli delle riviste sulla principessa Diana, l’orario della sveglia sempre ben in vista) e restituisce un’opera di emancipazione delicata, fatta anche di sottotesti e di non detto.