La mafia non è più quella di una volta, Franco Maresco sì. Sembra quanto volerci dire Un film fatto per Bene, il nuovo titanico sforzo del regista palermitano di portare il cinema là dove nessuno vorrebbe mai portarlo.
Infatti la sua ultima opera in concorso a Venezia 82, dopo una gestazione lunghissima e travagliata che viene raccontata sia con documenti autentici che ricostruiti dai diretti interessati, con un certo grado di finzione e ironia, sarebbe dovuto essere un omaggio a Carmelo Bene – come si evince dal titolo.
Si parte infatti dalla ricerca dello stesso Maresco da parte del sodale Umberto Cantone, il quale interroga tutti coloro che hanno lavorato negli ultimi anni col regista. Questi, impegnato in un delirante film dei suoi su San Giuseppe da Copertino, il santo volante ossessione dello stesso Bene, è sparito nel nulla dopo che la produzione gli ha tagliato i fondi a seguito di ritardi mostruosi e riprese inconcludenti.
Il film quindi su muove su questo crinale scivolosissimo, a metà tra finzione e verità, con tanto di messaggi audio e telefonate del produttore Andrea Occhipinti (Lucky Red) che si lamenta ferocemente del disastro produttivo cui sta andando incontro. Mentre passiamo in rassegna il film abortito, in pieno stile Cinico TV, la ricerca dell’artista diventa una sorta di viaggio nel suo cinema, a partire dalle prime esperienze televisive, passando per il sodalizio con Daniele Ciprì, terminando con gli ultimi due film.
È una sorta di diario della sua disfatta esistenziale, che ci ricorda molto chiaramente un sentimento che pervade il film, irrorato dalla solita nerissima e irresistibile comicità: Franco Maresco odia tutti, odia il mondo, odio il cinema, soprattutto per come è diventato, ma sopra ogni cosa odia se stesso. E per dimostrarcelo, in questa autoflagellazione che ha la (non)forma di film, rimette in scena tutta la sua cattiveria, il modo spietato con il quale dirige gli attori, lanciando strali in ogni direzione, scagliandosi ferocemente contro una serie di personaggi arcinoti dello spettacolo.
Un film fatto per Bene riprende da Carmelo l’idea di un cinema nato già morto e da questa mancanza di vita trae un’informità difficile da digerire, nonostante l’opera sia per l’appunto piena di trovate divertenti. Rispetto a Belluscone e La mafia non è più quella di una volta, infatti, a mancare è un soggetto universale, di chiunque possa avere un’idea, una qualche opinione da sottoporre a verifica confrontandola con le immagini del film.
Per questo è, tra le recenti, la sua opera più difficile, meno disposta a dialogare con un pubblico casuale, nonostante forse uno dei temi incessanti della sua opera sia il continuo tentativo di comunicazione impossibile tra una voce – quella del regista – e dei corpi ai quali mancano intelletto e apparato fonatorio – i derelitti protagonisti dei suoi film. Non ci si azzarda a parlare di un’opera da addetti ai lavori, ma indubbiamente nel nonsense che aleggia costante ci è parso di scorgere meno appigli per gli spettatori novizi.
Maresco infatti è molto più radicale del solito e si chiude in un solipsismo mai toccato prima, mettendosi al centro della scena, sia in assenza che in presenza, in una sorta di lamentazione/elogio funebre/confessione in (fin di) vita. Impietoso verso il mondo, spietato verso se stesso, affetto da disturbo ossessivo-compulsivo, scostante, perfido, il regista pare volerci coinvolgere in una visione che a lungo gira su se stesso, come avviene in una rotatoria in una delle sequenze più divertenti, in un processo di santificazione che termine con la stupenda sequenza del volo. Solo che non è il santo a librarsi nell’aria, tra le nuvole, ma è lo stesso autore che finalmente può staccarsi da terra per contemplare meglio la sua amata-odiata Palermo.