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The End: recensione

the end recensione film

Un musical sulla fine del mondo dall’autore di uno dei documentari più importanti e più premiati degli ultimi anni, che raccontava una pagina nerissima della storia dell’Indonesia.

Forse nessuno si sarebbe aspettato una simile svolta da Joshua Oppenheimer, che negli anni ’10 si è imposto con due lavori come The Act of Killing e The Look of Silence, ma si sarebbe ignorato il lato performativo e teatrale del primo lungometraggio della coppia.

Il suo nuovo progetto, The End, vive di una contraddizione tanto interessante quanto potenzialmente limitante: è un film che prende di petto il tema della fine del mondo, della distopia e dell’emergenza climatica, inserendosi nell’ormai vastissima produzione post-apocalittica che tanto ha caratterizzato gli ultimi decenni; d’altro canto questo tema quanto mai attuale, viene messo in scena con una struttura piuttosto antiquata – teatrale e in alcuni punti al limite dell’operistico.

Il film è ambientato in un unico luogo – la suggestiva miniera di sale di Petralia Soprana, con le sue caverne bianche (un colore che può sembrare neve, calce o povere) – all’interno del quale, e spesso a vista, i protagonisti hanno costruito il loro lussuoso e minimale rifugio, stipato delle opere d’arte di un mondo che si è suicidato quasi senza accorgersene.

Qui la famiglia dei personaggi principali si è rintanata ormai da decenni, a seguito di una non specificata catastrofe mondiale che ha spazzato via la civiltà (si parla spesso di pozzi di petrolio che continuano a bruciare per anni).

Qui il Padre e la Madre – non vengono mai usati nomi, assecondando una vocazione universalistica un po’ forzata – hanno cresciuto il Figlio, che non ha mai avuto contatti con l’esterno. Insieme a loro alcuni comprimari a loro utili (un medico, un maggiordomo, una cuoca/confidente), ma il sospetto, che poi verrà confermato, è che molte persone sono state lasciate fuori per non dover condividere questo benessere.

L’arrivo di una ragazza dall’esterno causerà prima alcuni contrasti, e poi un barlume di cambiamento nel Figlio. Ma è davvero possibile cambiare, quando si è scelto consapevolmente di non affrontare le conseguenze delle proprie azioni?

The End è un film tutt’altro che sottile, che urla la propria metafora e la esaurisce in una manciata di immagini e dialoghi, per poi reiterarla durante le sue due ore e mezza circa di cantare. Quando non fa ciò chiede al suo cast – Tilda Swinton, Michael Shannon, George MacKay – di cantare una sequela di canzoni in stile Broadway, piuttosto monotone sia come melodie che come ritmo, per creare un contrasto tra l’ottimismo e il vitalismo forzati dei sopravvissuti, i quali si crogiolano nella propria illusione di essere estranei a quanto accaduto.

Scopriamo presto infatti che il Padre (Michael Shannon, forse il migliore del trio) è stato tra i responsabili diretti dello sfruttamento energetico intensivo che ha causato la crisi climatica, ma al contempo ama raccontare se stesso come un benefattore roso da qualche risibile dubbio sul proprio operato; la Madre (una Tilda Swinton meno in parte del solito, forse anche a causa di un personaggio meno definito) dal canto suo si sveglia invece in preda agli incubi dopo aver condannato la propria famiglia alla morte.

Questa ipocrisia di fondo – che al contempo, ci dice chiaramente Oppenheimer, riflette l’accidia di tutti noi allorché ci giriamo dall’altra parte davanti alla crisi – è il senso di un film che se può vantare una notevole compattezza estetica, dall’altra mostra l’inesperienza di un autore troppo ostaggio delle proprie pur lodevoli idee: abbracciato il partito preso della staticità granitica, il regista non riesce a renderla interessante creando dinamiche interne potenti, sia a livello di regia che di interpretazioni, e quel poco che si vede annega spesso in un niente di fatto o un’inconsistenza (per un caso simile dagli esiti differenti si veda Il cavallo di Torino, per esempio).

Si aggiunga a ciò che il lato musical, sia come musiche che come coreografie, non risulta né così avvincente né sfrontato à la Emila Perez da giustificare il piano sequenza o la ripresa lunga come linguaggio privilegiato del film, cui forse avrebbe giovato un montaggio più dinamico anche per sopperire a una scrittura stentorea che preferisce la figura della spirale alla linea direzionale.

Rimangono una serie di intuizioni e di idee non da poco, soprattutto nel comparto scenografico, ma l’impressione è che The End sia un passo più lungo della gamba per Oppenheimer, al quale non si può negare il coraggio di aver sostenuto un progetto suicida proprio a partire dalle intenzioni. E alla fine (…) balena un dubbio: che questo suicidio artistico volesse essere il riflesso di quello della nostra civiltà?

🎬 THE END
🏷 in sala dal 3 luglio con IWonder
🎥 diretto da Joshua Oppenheimer

Autore

  • Alessio Cappuccio

    Alessio Cappuccio si è laureato in Letteratura Moderna presso l'Università degli Studi di Milano con una tesi sulla trilogia dei colori di Krzysztof Kieslowski.

    Nel frattempo ha iniziato a scrivere sul portale di informazione web Blogosfere nella sezione spettacoli, per cui è stato anche inviato durante la Mostra Internazionale del Cinema di Venezia e la Festa del Cinema di Roma.

    Nel corso della sua carriera ha lavorato e collaborato con una serie di realtà editoriali come Leonardo.it, Triboo, Studentville, ScuolaZoo, Milano e Roma Weekend, Londra da vivere spaziando dalla politica al tempo libero, la scuola, le nuove tecnologie, con un occhio di riguardo al cinema, sua vera passione.

    Dopo un Master in Critica Giornalistica presso l'Accademia d'Arte Drammatica Silvio D'Amico, e una parentesi da videomaker, si è trasferito in pianta stabile a Roma, dove co-dirige Popcorn&Podcast, il più grande e autorevole podcast di cinema dell'universo.

    In genere non parla di sé in terza persona.

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Data pubblicazione: 06/27/2025
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