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Presence: recensione

presence film recensione

Da tempo Steven Soderbergh ha annunciato il suo ritiro, ma probabilmente nessuno gli ha mai notificato questa sua decisione. Da svariati anni, infatti, il regista statunitense sta portando avanti una personale sperimentazione a cavallo tra generi cinematografici e nuove tecnologie, con un occhio particolare rivolto alle dinamiche economiche e finanziarie che innervano sotterraneamente la società americana.

Già nel recente Black Bag, per esempio, Soderbergh aveva destrutturato il genere spionistico rivoltandolo come un calzino e asciugandolo, concentrandosi sulle dinamiche interpersonali e lavorative delle spie. Presence rappresenta quindi un altro tassello di questo percorso di rivisitazione, in questo caso dell’horror, in un modo non troppo dissimile – per premesse registiche e avvicinamento del racconto ai protagonisti – da quanto proposto in Unsane.

Il film, lo sveliamo per non creare false aspettative, si traveste infatti da horror fantasmatico adottando sistematicamente, senza mai abbandonarlo, il trucco della soggettiva e il punto di vista di questa presenza che “infesta”, o meglio abita, la casa in cui si trasferisce la famiglia protagonista. A tutti gli effetti un travestimento, quello del film, che si può vedere molto più come un’esplorazione drammatica di alcune dinamiche famigliari contemporanee, nonché come un thriller che esplode soprattutto nella seconda parte, rispetto a un classico horror. Con l’artificio ulteriore dell’ambientazione in un’unica grande location, dalla quale non si esce (praticamente) mai.

Il primo grande problema dell’opera, girata con una camera mirrorless economica e dotata di grande mobilità, sta però in questa premessa tecnologico-ideologica, nel partito estetico preso: vivere la storia dal punto di vista della presenza non aggiunge moltissimo a una vicenda in fin dei conti involuta, priva di un particolare respiro o connotazioni altre.

Anche l’attenzione del fantasma e quindi il suo sguardo, focalizzantesi su determinati personaggi e sulle loro vicende a scapito di altri (elemento spiegato in un finale che dà un po’ di senso al tutto) non è poi particolarmente dissimile da quella del narratore tipico di un qualsiasi film girato abusando di steadycam e grandangolo. Insomma, in molti momenti si dimentica che lo sguardo è pur sempre quello di uno spettro – ovviamente muto e interagente solo di rado con gli altri personaggi e ogni discorso di interpretazione metaforica sul desiderio della narrazione appare pretestuoso semplicemente perché non molto supportato da trama e racconto.

L’altro grande incaglio è per l’appunto la scrittura, ovvero la sceneggiatura di David Koepp, che si presenta come una riflessione non particolarmente approfondita, né avvincente, né accattivante, sul disagio delle giovani generazioni, le aspettative che gravano su di esse, il loro senso di solitudine e smarrimento, lo scontro-incontro con i genitori. Temi molto abusati, tra l’altro messi in scena con svariate ripetizioni e anche quando si tenta di ampliare la prospettiva sociologica, integrando l’onnipresente capitalismo in modo superficiale, non è che si approdi a particolari guizzi.

I personaggi sono caratterizzati da pochi tratti e divisi in due sponde: l’attenzione maggiore va verso il tratteggio della figlia, la protagonista, e il padre, figura sensibile di maschilità fragile; molto più monocordi e meno interessanti la madre e il figlio. Bisogna ammettere che sul finire si aprono spiragli di maggiore complessità, ma l’impressione è più quella dell’occasione persa che di un colpo di coda.

In un film in cui nessuna interpretazione brilla né il comparto tecnico fa sentire con forza la propria presenza (perdonate il gioco di parole), il colpo di scena finale rimette sul tavolo alcune questioni e pone in una luce diversa – anche decisamente molto più interessante – alcuni avvenimenti visti in precedenza. Purtroppo forse un po’ poco e forse una svolta tardiva per un film che dura meno di 90 minuti e che gira spesso a vuoto per una buona parte del minutaggio. D’altro canto non si può pretendere sempre il film illuminato da uno stakanovista come Steven Soderbergh…

🎬 PRESENCE
🏷 in sala dal 24 luglio con  Lucky Red
🎥 diretto da Steven Soderbergh

Autore

  • Alessio Cappuccio

    Alessio Cappuccio si è laureato in Letteratura Moderna presso l'Università degli Studi di Milano con una tesi sulla trilogia dei colori di Krzysztof Kieslowski.

    Nel frattempo ha iniziato a scrivere sul portale di informazione web Blogosfere nella sezione spettacoli, per cui è stato anche inviato durante la Mostra Internazionale del Cinema di Venezia e la Festa del Cinema di Roma.

    Nel corso della sua carriera ha lavorato e collaborato con una serie di realtà editoriali come Leonardo.it, Triboo, Studentville, ScuolaZoo, Milano e Roma Weekend, Londra da vivere spaziando dalla politica al tempo libero, la scuola, le nuove tecnologie, con un occhio di riguardo al cinema, sua vera passione.

    Dopo un Master in Critica Giornalistica presso l'Accademia d'Arte Drammatica Silvio D'Amico, e una parentesi da videomaker, si è trasferito in pianta stabile a Roma, dove co-dirige Popcorn&Podcast, il più grande e autorevole podcast di cinema dell'universo.

    In genere non parla di sé in terza persona.

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Data pubblicazione: 06/27/2025
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horrorlucy liusteven soderbergh

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