LA CITTÀ PROIBITA
diretto da Gabriele Mainetti
Dopo la debacle di Freaks Out, Gabriele Mainetti ritorna a una versione più contenuta – e funzionale – della sua idea di cinema di genere declinato all’italiana e di qualità. La città proibita è infatti il trionfo dell’industria italiana, attenta a ogni singolo dettaglio, sia artistico e tecnico, ma dalla vocazione popolare.
L’ottima fattura è onnipresente in un action marziale/melodramma/commedia che non ha particolari picchi pur mantenendo un’omogenea e calcolata sensazione di cura: dalla fotografia di Paolo Carnera alla scenografia di Andrea Castorina, passando per il suono di Angelo Bonanni e le musiche di Fabio Amuri, tutto trasuda competenza al servizio di un’idea estetica precisa.
La giovane Mei (la scoperta Yaxi Liu), arriva a Roma alla ricerca della sorella scomparsa: qui si scontra sia con la criminalità locale e quella d’importazione cinese, simboleggiata da due ristoranti, mentre sullo sfondo si agita la tragedia famigliare di Marcello (Enrico Borello), stretto tra la madre (Sabrina Ferilli) e il boss Annibale (Marco Giallini).
Bruce Lee, Jackie Chan, gli Shaw Brothers, The Raid, la scuola thailandese: Mainetti ha ben studiato e si vede in questo film incentrato su 3 scene di lotta, coreografate ottimamente e con inventiva, senza strafare in tecnica pur mantenendo fluidità nel montaggio. L’intreccio classicissimo dal canto suo trova una sponda felice nella caratterizzazione romana, carica di un’ironia puntuale che non sfocia mai nella parodia, e in una deriva melodrammatica che rischiava di essere stucchevole e invece dona maggior senso a tutta la vicenda.
Ma il merito di Mainetti è probabilmente quello di riuscire a raccontare la contemporaneità – criminale, etnica, urbanistica – con la lente del genere, alternando stilizzazione e realismo a seconda delle esigenze e quindi rivolgendosi astutamente tanto al fan quanto allo spettatore casuale.