Quest’anno pochi film in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia 2025 possono essere considerati opere sbagliate in pieno come Elisa, l’ultima fatica di Leonardo Di Costanzo che, come è stato fatto notare da più parti, parrebbe quasi un sequel spirituale di Ariaferma, a causa dell’ambientazione.
Tratto infatti da eventi realmente accaduto – annotazione che a volte pare una scusa per non assumere un punto di visto preciso sul racconto – Elisa si presenta con le migliori intenzioni, volendo riflettere sui concetti di giustizia riparativa, colpa, perdono e possibilità di convivenza con la consapevolezza del male che si annida in ognuno di noi, lambendo territori abbastanza vicini a quelli di un caposaldo letteraria come L’avversario, di Emmanuel Carrère.
Roschdy Zem, volto noto a chiunque apprezzi almeno un po’ il cinema francese (il film infatti è una coproduzione italo-svizzera e per metà francofono), interpreta un criminologo che sta svolgendo una ricerca all’interno di un istituto le cui detenute godono di una sorta di semilibertà all’interno della struttura, ovviamente recintata e sorvegliata. Vivono infatti in piccoli chalet, si occupano di compiti lavorativi utili al recupero sociale e sono seguite da personale altamente qualificato, insomma il non plus ultra a livello di detenzione intelligente.
Tra questa Elisa, interpretata dalla sempre più lanciata Barbara Ronchi, rinchiusa per avere commesso un delitto atroce in seno alla famiglia di appartenenza, proprietaria di una piccola azienda. La donna afferma di non ricordare molto dell’avvenuto, ma un po’ alla volta, guidata dal criminologo, riesce a riprendere le fila del proprio doloroso passato e a venire a patti con ciò che ha fatto.
Il problema principale di Elisa non è tanto la fattura del progetto, decorosa ma decisamente anonima tanto nella fotografia (non si comprende in che modo Luca Bigazzi vi abbia messo mano) quanto nel montaggio (cosa grave, vista la struttura narrativa che prevede molti flashback), per non parlare della direzione degli attori più che sottotono; a questo proposito si fa persino fatica a spiegarsi l’incomprensibile presenza di Valeria Golino, nei panni di un inutile personaggio più che secondario che dovrebbe aggiungere un ulteriore livello di riflessione al film.
No, il problema decisivo del film di Leonardo Di Costanzo è molto semplicemente arrivare a stabilire cosa volesse suggerire questa sceneggiatura che dopo aver disposto sul tavolo gli elementi fattuali del caso, e dopo aver fatto fare un percorso psicologico di auto-analisi della protagonista (tra l’altro supportata un criminologo/studioso che velocemente veste i panni del terapeuta), sembra arrivare a constatare che il male esiste, il suo scatenarsi è incomprensibile, il dolore non si può redimere ma solo accettare. E bisogna andare avanti, come indica l’anonima e sciatta inquadratura finale.
Quindi dopo un’ora e tre quarti di sguardi nel vuoto persi nel paesaggio nevoso, scatti d’ira, pianti, momenti di overacting, il regista lascia a noi il compito di sbrogliare il bandolo di una matassa che purtroppo il suo cinema non ha saputo elevare rispetto a quanto propongono documentari crime o persino servizi di telegiornale.
Elisa lascia davvero esterrefatti per come sia assente un punto di vista, una prospettiva, una suggestione rispetto alla tragedia che vuole raccontare. E purtroppo non si può neanche affermare che si sia puntato tutto sulla carta dell’empatia, perché per come è girato e montato il materiale e per la distanza frapposta tra spettatore e personaggi, non si entra mai davvero né nella mente di chi sta analizzando il caso – il criminologo – né nel cuore e nei pensieri di chi quella vicenda la sta scontando sulla propria pelle (banalmente Elisa, ma anche il padre che la va a trovare).
Insomma, a detta di chi scrive Elisa è veramente un film da dimenticare al più presto e da lasciarsi alle spalle.