È un film che si preannuncia apertamente divisivo El Jockey, ultima opera del prolifico regista argentino Luis Ortega, presentata all’81° Mostra Internazionale del Cinema di Venezia. Il titolo infatti è all’insegna del più scoperto realismo magico, passando dall’essere caratterizzato inizialmente da un tono stralunato e lunare per finire all’insegna del surrealismo più sfrenato, in cui la forza dell’immagine e della metafora – con associazioni di senso tutt’altro che immediate – prevalgono nettamente sulla narrazione.
Dopo una vita votata all’autodistruzione, agli stravizi di alcol e droghe, e a un generale disinteresse per le cose del mondo, nonostante un talento riconosciuto per l’arte dell’equitazione e l’attesa di un bambino da parte della compagna di scuderia e partner Abril, (Ursula Corbero de La casa di carta) il fantino Remo Manfredini viene posto davanti a un bivio: rimettersi in riga, ripulirsi e ricominciare a vincere, come vorrebbe la famiglia mafiosa che gestisce la squadra; oppure morire e rinascere per amore, come gli chiede la sua donna. Inutile dire che Remo sceglierà la seconda via, percorrendo un viaggio esistenziale che lo porterà a cambiare identità e genere, con esiti assolutamente imprevedibili.
“Dentro ognuno di noi non c’è una sola identità ma un labirinto. [Il film] è anche una storia che cerca di rispondere a una domanda molto complessa: quante volte bisogna morire per liberarsi di se stessi? Ed è una storia d’amore: non sappiamo bene come amare, ma sentiamo che l’altro può accettarci per come siamo senza sapere effettivamente chi siamo”, ha affermato Ortega, e questo senso di smarrimento si avverte in modo distinto durante il dipanarsi de El Jockey, la cui ancora di stabilità è probabilmente rappresentata – oltre che dalla presenza magnetica del protagonista, il Pierrot Nahuel Pérez Biscayart – dalla fotografia di Timo Salminen, collaboratore abituale di Aki Kaurismaki.
Ritorna infatti il gusto per le inquadrature frontali del finlandese, nonché una certa piattezza dell’illuminazione e la stessa palette di colore, sopratutto per gli sfondi degli interni; il tono della pellicola, però, per quanto presenti più di un richiamo al regista de Luci della sera nell’utilizzo di un’ironia slapstick sorprendente e di un ritmo compassato, è più quello sopra le righe e costantemente inventivo di uno Jodorowksy. Il mix di due ingredienti all’apparenza così distanti dà come risultato un’opera che affastella sequenze sopra le righe seguendo la propria natura proteiforme, sempre mutevole: commedia, noir, quindi cinema della transizione.
El Jockey è forse schiavo del desiderio di Ortega non farsi mai trovare dove ce lo si aspetterebbe, un po’ come la bottiglia di whisky nascosta all’interno di un altare votivo alla Madonna: è un film per esempio che non ha paura di introdurre personaggi e farli sparire nel e ricomparire dal nulla, di allestire sequenze di ballo fini a se stesse come farebbe Sorrentino, di citare tanto il Padrino quanto Bunuel quanto Kim Ki-duk con serietà e di proporre la più classica delle sequenze del cinema mistico – la levitazione – senza calcare troppo la mano.
Se quindi risulta inutile pretendere coerenza narrativa dal film, quantomeno a Ortega si può imputare un’eccessiva fiducia nei propri mezzi e nella sua convinzione che il pubblico lo riesca a seguire come fanno le telecamere di sicurezza nel lungo girovagare di Manfredini in una Buenos Aires pasoliniana, in cui sembrano esistere solo gli ultimi e i diseredati. È invece molto probabile perdersi e perdere il filo del discorso, ma forse è anche un po’ il punto di un film teso a rappresentare il caos della vita e il miracolo di un amore senza confini. Il consiglio è quello di tenere duro, godersi le musiche di Sune Rose Wagner e farsi tagliare in due gli occhi come ne L’age d’or.
🎬 EL JOCKEY
🏷 in sala dal 17 luglio con Lucky Red
🎥 diretto da Luis Ortega
🦁 in concorso al Festival di Venezia 81