“The Smashing Machine”: la fragile potenza di Dwayne Johnson a Venezia
Il debutto di Benny Safdie da solista al Lido
Alla Mostra del Cinema di Venezia 2025 è arrivato The Smashing Machine, scritto e diretto da Benny Safdie, che per la prima volta firma un’opera senza il fratello Josh. Presentato in anteprima mondiale, il film ha ottenuto una lunga standing ovation, culminata con le lacrime di Dwayne Johnson in sala accanto a Emily Blunt e al vero Mark Kerr. La giuria gli ha attribuito il Leone d’argento per la miglior regia.
Una storia vera tra gloria e caduta
Il film racconta l’ascesa e la caduta di Mark Kerr, uno dei pionieri delle arti marziali miste negli anni ’90, in un’epoca in cui lo sport non aveva ancora la visibilità globale di oggi. Kerr conquista vittorie sul ring, ma resta intrappolato in un vortice di dolore fisico e dipendenza da oppiacei, che mette in crisi non solo la sua carriera ma anche la relazione con la compagna Dawn, interpretata da Emily Blunt.
The Smashing Machine prende spunto dal documentario HBO del 2002 dedicato allo stesso Kerr e, come il materiale originale, indaga la contraddizione tra il mito della forza e la fragilità dell’essere umano.
Lo stile registico: un ring fatto di corpi e anime
Safdie costruisce un cinema viscerale e realistico: la macchina a spalla e i continui primi piani trasformano ogni scena in un incontro, come se i protagonisti vivessero costantemente sul palcoscenico di un ring invisibile. Questa scelta restituisce una veridicità brutale, amplificata da una palette cromatica intensa e da una patina che richiama gli anni ’70, capace di rendere le immagini più dense e fisiche.
I lottatori che vediamo sullo schermo non incarnano un’epica muscolare della violenza. Al contrario, appaiono come eroi vulnerabili, pronti a sacrificare tutto per pochi istanti di gloria, portando sulla pelle la forza e nell’anima le ferite. Safdie sembra voler far parlare le loro fragilità più che i loro corpi, racchiudendo in figure mastodontiche una dolcezza inattesa e struggente.
Dwayne Johnson e la forza della vulnerabilità
Con The Smashing Machine, Dwayne Johnson si libera della corazza da star del blockbuster. Qui interpreta un uomo smarrito, incapace di gestire la dipendenza e i suoi fantasmi interiori. La sua trasformazione, fisica e psicologica, sorprende: meno “The Rock” e più attore drammatico, capace di mostrare una fragilità autentica. Lo ha detto lui stesso: “Credo che ci sia forza nella vulnerabilità”.
Accanto a lui, Emily Blunt dà corpo a una Dawn intensa, una donna che ama con forza ma che soffre nel veder crollare l’uomo accanto a sé. La loro dinamica regge il cuore emotivo del film, ma per rendere credibile la tensione tra amore, rabbia e perdita Safdie sembra incagliarsi in un loop narrativo che in alcuni momenti fa girare la storia a vuoto, invece di spingersi oltre.
Un film che convince, ma non scuote
Il film però resta ancorato alla cronaca, in maniera didascalica: ci lascia intravedere i personaggi senza portarli fino al loro estremo. Safdie non rinuncia a spiegare le regole dello sport e a ricostruirne l’evoluzione, ma questa scelta finisce per sottrarre spazio ad altro. Il risultato è un mosaico di storie e di volti che vincono e perdono, travolti dall’adrenalina del ring, ma raramente lasciati liberi di spingersi verso una dimensione più radicale.
C’è però un aspetto significativo: il film prova a rinobilitare le MMA, mostrando che non sono fatte solo di apparenza o brutalità, ma di studio, disciplina, dedizione e di una forza psicologica e mentale necessaria per affrontare colpo dopo colpo, sia sul corpo che sull’anima, le ferite inflitte all’ego.
Come spettatrice, ho trovato The Smashing Machine un’opera solida, intensa e coerente nella costruzione visiva, ma incapace di restituire quell’esperienza esclusiva che cerco a Venezia. È un film che convince per forza e interpretazioni, ma manca di quel brivido di unicità che trasforma una proiezione in un momento irripetibile di rivelazione.
Conclusione
The Smashing Machine restituisce dignità a uno sport spesso liquidato come mera violenza e allo stesso tempo illumina la vulnerabilità nascosta dietro la forza fisica. Safdie firma un film muscolare e intimo, che regala a Johnson una nuova identità da attore drammatico. Non un capolavoro assoluto, ma una tappa significativa nella sua carriera e un segnale di un cinema che non teme di mostrare la fragilità dei propri eroi.