Incredibile a dirsi, quest’anno hanno partecipato al concorso della Mostra del Cinema di Venezia 2025 ben due film ungheresi. Ancora più incredibile, si tratta di due film di autori acclamati e, a quanto pare, entrambi più che riusciti! Se Orphan di Laszlo Nemes ha confermato le qualità dello sguardo di un cineasta che ha pochissimi eguali in Europa, Silent Friend di Ildiko Enyedi era guardato con maggiore sospetto perché la regista, a fronte di un bellissimo film come Corpo e anima, Orso d’oro a Berlino, aveva poi realizzato il poco riuscito Storia di mia moglie.
Tuttavia il tripartito Silent Friend si è rivelato una delle sorprese del festival, fruttando non soltanto a Luna Wedler il premio Mastroianni alla giovane promessa, ma anche e soprattutto sorprendendo gli accigliati e sospettosi partecipanti alla premiere. Due ore e mezza di durata e una sinossi che minacciava dormite profonde, rivelando come il protagonista del film fosse un albero, un ginkgo biloba, testimone delle differenti vicende portate avanti dai personaggi dislocati in tre epoche (presente, anni 70, inizio Novecento).
Ambientato quasi prevalentemente in un giardino botanico di una cittadina tedesca universitaria di chiara estrazione medievale, il film racconta i tentativi della scienza (intesa in modo molto ampio) di comprendere il linguaggio delle piante e comunicare in qualche modo con esse. La premessa, in tutta la nostra ignoranza, appare quasi sensata con un minimo di immaginazione: il mondo vegetale reagisce all’ambiente circostante e agli stimoli, ma con tempistiche molto dilatate, imparagonabili rispetto a quelle umane.
I più scettici potrebbero alzare gli occhi al cielo, subodorando un improbabile mix di spiritualismo d’accatto in salsa New Age, spruzzatine di sciamanesimo e Ipotesi Gaia. Tuttavia Silent Friend lambisce sì questi territori, ma fermandosi sempre un paio di passi prima del ridicolo. Merito di una sceneggiatura che alterna lo scorrere di tre storie molto accattivanti e popolari, in cui non mancano momenti buffi, temi attuali, strizzatine d’occhio e una curiosa prospettiva, anche a livello di inquadrature, se non proprio botano-centrica quanto meno non così antropo-centrica.
Nella prima Tony Leung Chiu-Wai, trasudante carisma qualunque ruolo interpreti, è un neuroscienziato che, bloccato in università dal Covid, inizia per l’appunto ad appassionarsi al possibile linguaggio delle piante, o quantomeno a captarne le reazioni. A contrastarlo il custode dell’orto botanico, che non capisce cosa stia facendo, mettendogli i bastoni tra le ruote.
Nella seconda seguiamo le schermaglie amorose di una coppia di ragazzi in piena epoca di contestazione studentesca. Lui letterato campagnolo, lei botanica cittadina, il primo accetta di prendersi cura di un geranio sottoposto all’esperimento della seconda. Scettico, ma comunque dedito alla causa, presto sviluppa un particolarissimo, ilare ed entusiasmante rapporto con la pianticella.
Nella terza una giovane studente è la prima donna ammessa all’università che deve fare i conti con un ambiente ovviamente maschilista. Costretta a trovare un impiego, diventa apprendista di un fotografo e la sua curiosità verso il mondo vegetale passerà dal puro studio speculativo all’analisi attraverso le immagini.
Si diceva dell’intelligenza della sceneggiatura, e infatti Silent Friend evita accuratamente di fornire risposte, ritraendo questi tentativi di studio come goffi, incerti, altamente sperimentali e passibili di fallimento a ogni passo. Ma soprattutto non portando a scoperte e risoluzioni, perché ciò che interessa alla regista è proprio il tentativo, ardito, folle e pionieristico insieme, di connettersi in qualche modo verificabile a quella vasta parte di realtà che ignoriamo, considerandola quasi alla stregua di materia inerte. Ecco perché non stonano né risultano stucchevoli i tantissimi dettagli su cortecce, foglie, steli, fili d’erba, le inquadrature prolungate e suggestive delle chiome degli alberi, che inframezzano tre vicende a prescindere godibili.
In particolar modo quella ambientata negli anni ’70 (girata in pellicola con la tipica grana dell’epoca) è scritta e recitata in maniera deliziosa, sempre cavalcando maliziosamente il detto-non detto tra i due ragazzi; a Tony Leung viene affidata l’esposizione scientifica più difficile e noiosa, portata a casa con maestria (anche grazie alla comparsata di Lea Seydoux); il terzo segmento, in bianco e nero, è invece più improntato al lato artistico e al bozzetto d’epoca.
Silent Friend riesce così nella difficilissima impresa di fare poesia con una materia che non si potrebbe considerare più prosastica, ovvero la scienza e gli scienziati (quelli veri, anche in erba, ma di certo non romanzati), senza indulgere in facili sentimentalismi. Per esempio la colonna sonora è usata quasi sempre in modo straniante e surreale, con sonorità elettroniche che non si assocerebbero all’argomento.
Un piccolo miracolo, quello di un’opera che senz’altro richiede una certa attenzione e persino un po’ di predisposizione, ma che poi fa di tutto per risultare quanto più popolare e scorrevole possibile nonostante le limitazioni autoimposte, andando a toccare, adattandoli a sé, generi come la commedia muta, il romanzo di formazione e il teen drama amoroso, mantenendo al contempo il rigore linguistico scelto in partenza.
Ultima nota: lunghi e spontanei applausi in sala quando sui titoli di coda, al pari dei nomi degli attori, sono apparsi quelli di tutte le specie di piante ritratte nel film.