C’è un gioco di prestigio che Kathryn Bigelow prepara per la soddisfazione del pubblico nel corso dei tre atti di A House of Dynamite, il suo ultimo thriller politico-bellico prodotto da Netflix, in concorso a Venezia. Purtroppo anche solo accennarvi rovinerebbe la sorpresa, ma possiamo almeno accennare che riguarda il Presidente degli Stati Uniti, il quale parrebbe davvero essere una versione fittizia di Donald Trump.
E invece cosa si può dire dell’opera della regista di Zero Dark Thirty presentata in concorso a Venezia 82? Sicuramente che c’è stato uno sfoggio di ricostruzione burocratico-tecnico-logistico non indifferente, in quanto il film mette in scena con un grado di dettaglio impressionante (per quanto sia difficile verificarne l’aderenza al vero) l’enorme, intricato e sofisticato apparato che si mobilita nel caso dell’ipotesi di un attacco nucleare contro gli Stati Uniti.
La premessa è infatti alquanto semplice. Durante una normale sessione di controllo viene avvistato dalla sala di controllo del Pentagono il lancio di un oggetto dalla provenienza non identificata che inizialmente non desta troppe preoccupazioni, ma che presto viene riconosciuto come una testata nucleare che potrebbe deflagrare su territorio americano. Il film quindi segue come viene affrontata questa emergenza dai diversi personaggi e dalle differenti sfere coinvolte nel processo (politico-militare-strategico), sia dal punto di vista del processo decisionale che da quello emotivo, e soprattutto contempla sia il caso di uno scoppio di una testata nucleare sugli USA che quello di un’eventuale ritorsione.
Bigelow ha dichiarato di essere tornata al cinema, dopo una lunga pausa, in quanto profondamente interessata alle modalità con le quali reagirebbero le persone chiamate a prendere decisioni etiche e strategiche fondamentali in uno scenario testé descritto, oltre ovviamente all’argomento della deterrenza nucleare e della non proliferazione delle stesse testate.
Il risultato, purtroppo, non è lontanissimo da quanto si potrebbe esperire guardando alcuni episodi di puntate di serie tv come 24, Homeland (e così via): ciò che intendiamo è che, al di là delle interpretazioni, della cura, della sofisticazione della sceneggiatura e delle sfumature, il prodotto confezionato dalla regista è molto simile a una versione potenziata, levigata e più raffinata di un serial.
Le scene del film si ripetono uguali a se stesse a cicli continui e prevedono spesso stanzoni iperteconologici o istituzionali nei quali personaggi preoccupati (interpretati in un cast in cui spiccano Rebecca Ferguson e Idris Elba) si mostrano in tutta la propria umanità (NON-SPOILER: la loro umanità consiste nell’essere comprensibilmente tesi, preoccupati e addolorati) mentre si vomitano addosso informazioni, contro-informazioni e deduzioni, supposizioni, il tutto con un ritmo incalzante e un’orrenda musica tensiva di archi, interrotte saltuariamente dalle scene di chi è rimasto a casa che vorrebbero rappresentare la posta emotiva della decisioni prese dai protagonisti.
Diviso in tre parti, ognuna con un proprio simpatico e arguto titolo, A House of Dynamite è un congegno di altissima tensione per la prima delle sue tre sezioni – e d’altro canto con questa premessa come potrebbe non esserlo? Il problema del film è proprio questo, ovvero che si potrebbe ritenere concluso con la prima sezione, dato che le altre due – in una struttura a incastro in cui torniamo indietro nel tempo seguendo altri personaggi – non fa altro che rilanciare la medesima tensione, pretendendo al contempo di aumentare il grado di complessità e le sfumature morali della pellicola.
Pretesa che, malauguratamente, non trova solide fondamenta nella scrittura, giacché non si può proprio affermare che Bigelow e il suo sceneggiatore abbiano scoperchiato chissà quale vaso di Pandora geopolitico, limitandosi a ripetere ovvietà come il meccanismo di sospetto-attacco-contrattacco preventivo legato all’esplosione di una testata su territorio nemico.
Forse ridicola, forse frutto dell’ingerenza di Netflix (che giustamente vuole il maggior grado di chiarezza per il suo pubblico, etichettato come casual), ma anche simpatica e a tutti gli effetti inclusiva, è invece la scelta di spiegare a schermo alcune sigle e tecnicismi pronunciati a velocità supersonica dai personaggi e incomprensibili dai comuni mortali. Scelta che evidentemente rende esplicito come il film possa essere un Sacro Graal per tutti i nerd bellici.
Ecco, forse il punto di A House of Dynamite sta proprio qui ovvero nell’intento fantapolitico di illustrare per filo e per segno cosa accadrebbe nel momento di massima tensione di fronte a una minaccia nucleare, alimentare il dialogo sull’argomento, esplorarne le conseguenze. Lodevole intento, che probabilmente sarebbe stato rispettato meglio adottando un taglio documentaristico, perché qui l’ampiezza narrativa, emotiva e metaforica tipica di un’opera di finzione è totalmente mortificata in favore di allarmismo, ansia e legittima preoccupazione per il futuro.